“Il Giuramento”

/“Il Giuramento”

Il Giuramento di Claudio Fava
Le teste si possono tagliare o contare. Il regime fascista, nelle università
italiane, scelse entrambe le soluzioni. Di teste ne contò
milleduecentotrentotto. Dodici furono quelle che tagliò. Eroi per caso di
un’Italia civile a cui era rimasta solo quell’estrema risorsa di dignità: il
diritto ad un rifiuto. Accadeva il 13 novembre 1931.
Il mio testo teatrale racconta uno di loro. Che nella propria storia
raccoglie i pensieri e i gesti di tutti: l’incapacità della menzogna, il rigore
illuminista del sapere, la noia per liturgie del fascismo. Ma anche
l’intuizione sul destino del paese, sul modo in cui furbizie e conformismi
avrebbero trasformato l’Italia di quegli anni in una terra senza libertà e
senza decenza.
Si chiama Mario Carrara e fa il medico legale in un tempo ancora
abituato a censire gli uomini e le anime con l’algida geometria di Cesare
Lombroso: fronte, ossa, sguardo, fiato, pelle…
Nella vita di Carrara – vedovo, solitario, ironico e inacidito al tempo
stesso – c’è l’università che per lui è esercizio del dubbio volterriano. C’è
la fantesca Tilde che lo accudisce, lo sfotte, lo scuote. C’è il suo corredo di
pillole minute come un’unghia per sedare claustrofobie e gastriti. E c’è il
carcere dove Carrara da vent’anni va ad ascoltare, a lenire, a curare
solitudini.
Attorno a lui corre l’Italietta conformista dei primi anni del fascio, gli
studenti con la tessera del Guf cucita nella tasca dei pantaloni, il finto
perbenismo, la carriera, le conversazioni vaghe e discrete dei colleghi, le
brume umide di una città del nord…
Sulla politica, fatta di goliardia e di lettere maiuscole, Carrara nutre un
disagio estetico più che ideologico. Gli sembrano ridicoli certi suoi
studenti inamidati in camicia nera e pugnaletto. Gli vengono a noia le
finte orazioni dei colleghi più anziani sulla patria e sul destino. Troppo
poco per un turbamento o per una ribellione: la vita potrebbe scorrere
senza pieghe…
Finché accade qualcosa. All’inizio sono solo dettagli: passi di marcia
lungo la strada, un detenuto bastonato in cella, la rassegnazione di certi
colleghi, la tiepida prudenza di ragazzi che hanno solo metà dei suoi
anni…
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Lentamente attorno a sé Carrara percepisce l’agonia di un’Italia in cui
molti capiscono cosa sta accadendo ma pochi scelgono di stare dalla
parte giusta. Non scelgono ebrei e liberali, che continuano a iscriversi a
migliaia al partito fascista. Non sceglie la chiesa che cerca solo parole di
benevola neutralità. Perfino socialisti e comunisti continuano a ritenere
Mussolini solo un frutto del caso, un errore minore.
Quando il rettore gli comunica data e prescrizioni del giuramento –
fedeltà al re e al duce – Carrara capisce di non poterlo fare. Non per
eroismo. E’ che in quel giuramento, in quel rito a cui tutti si
sottoporranno per lasciare quiete le loro esistenze, Carrara riconosce
improvvisamente anche la propria vita: le pillole disposte in buon ordine
sulla tovaglia dei suoi pranzi da vedovo, l’inconfessabile paura di
accettare il corteggiamento di Tilde, l’estraneità per quei ragazzi a cui
ha regalato il proprio sapere senza rivolgere loro mai una domanda di
troppo. E invece le domande adesso sgorgano, impertinenti, necessarie:
che ci fate a vent’anni con quel pugnaletto e la camicia nera?
Più che una ribellione, è il senso della decenza. Ma anche l’occasione per
dare una sferzata alla propria vita. In quell’ultima lezione di verità ai
suoi giovani avanguardisti e ai suoi rassegnati colleghi. In quell’amore
sospeso per Tilde che ha trovato finalmente il coraggio e la spudoratezza
di non rifiutare.
In una delle ultime scene, mentre gli altri professori – ligi e mansueti –
pronunciano il loro giuramento, vedremo Carrara attraversare i
camminamenti del carcere in cui ha sempre lavorato da medico legale:
questa volta da detenuto, con i pantaloni larghi e i passi trascinati
perché gli hanno tolto cintura e stringhe. Non ha giurato. Non poteva.
Non potrà mai più.
[Il giorno dopo le cattedre dei reprobi verranno immediatamente
riassegnate. Nessuno dei nuovi docenti si tirerà indietro. Alla storia
resteranno solo i nomi dei dodici che seppero dire di no a Mussolini.
Mario Carrara fu uno di loro.]
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Il Giuramento di Claudio Fava
Nota sui personaggi
Mario Carrara, cinquantenne, vedovo, un bell’uomo elegante, austero,
abitudinario fino allo sfinimento ma capace di imprevedibili esplosioni di
vitalità.
Tilde, la sua governante, fra i trenta e i quarant’anni, d’una bellezza fresca,
non vistosa. Allegra, diretta, vitale. Senza peli sulla lingua con Carrara, ma
anche timida e incerta di fronte all’irruenza dei sentimenti.
Alfredo Pareschi, collega di Carrara all’università, medico, solare, ironico, a
tratti perfino brutale. Socialista nel cuore, pragmatico nelle scelte di vita.
Il preside, un solerte burocrate, attento alle ragioni della propria carriera e
alle parole d’ordi-ne del fascismo.
Il capomanipolo, camerata, puttaniere, vanesio… Uno da sabato fascista
E poi gli allievi di Carrara: Baldini, lo studente fascista, camicia nera
d’ordinanza, tessera del fascio cucita nei pantaloni; Blasco, lo studente
toscano, furbo, gaudente, ironico, arrapato, dissacrante; Malagò, lo studente
siciliano, tormentato ma conformista, predestinato a diventare un perfetto
fascista italiano; Fisichella, inguaribile somaro.
(CAST IN VIA DI DEFINIZIONE)
REGIA
NINNI BRUSCHETTA
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Nota del regista
Ma ci siamo veramente liberati del fascismo? O è successo come ne “I
Carabinieri” di Beniamino Ioppolo che con una italica acrobazia l’apparato è
rimasto lo stesso e ai gerarchi si sono sostituiti i funzionari?
Questa storia vera, che Claudio ha riscritto in forma teatrale, è una guida, un
insegnamento di coerenza e di rigore che non attiene solo ai casi estremi o
addirittura storicizzati come il fascismo ma è necessario per la vita stessa,
perché quando ci pieghiamo alla prepotenza, alla volgarità della violenza in
qualsiasi sua forma, siamo già morti. È inutile illudersi che chiudendo un
occhio, che cedendo un po’, che rinunziando anche solo a una piccola parte
della propria libertà, si possa ottenere qualcosa in cambio, perché non c’è
commercio di libertà. La libertà e la vita sono la stessa cosa. La si può
barattare solo con la morte.
Per restituire in modo chiaro l’universalità di questo tema penso a una messa
in scena asciutta, fedele al testo. E’ importante che si percepisca l’atmosfera
del tempo, il drammatico contesto storico sociale del fascimo, con la sua
estetica, la sua retorica e i suoi segni spesso spacciati per simboli di una
tradizione che, a ben guardare, risulta inventata e assume di conseguenza
aspetti diabolici.
Nei giovani ci sarà la speranza, l’illusione e il fascino di un progetto che
sembrava risolutivo ai loro occhi. Nei più grandi la disillusione, l’adeguamento,
la sottomissione. Nell’unico protagonista l’instancabile ingenuità di chi non si
piega all’ingiustizia e al sopruso forse solo perché non è in grado di capirlo, di
concepirlo.
Evidenziando il racconto e proponendo la storia come tema centrale dello
spettacolo, la semplicità e il rigore della messa in scena serviranno a porgere
lo stesso racconto con tutta l’attualità che gli è propria. Personaggi cinici,
freddi, che sbagliano pur guardando negli occhi l’errore. E lo accettano, lo
fanno proprio, lo difendono anche a scapito dei loro amici. Personaggi veri,
insomma, tristemente contemporanei, mai grotteschi se non quando la loro
stupidità li rende tali. Proprio come al giorno d’oggi.
Ninni Bruschetta

2018-05-08T15:49:21+00:00